Sintomi prolungati dopo infezioni respiratorie diverse da Covid-19, il caso del “long-cold”

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Uno studio recentemente condotto dalla prestigiosa Queen Mary University di Londra, pubblicato su eClinicalMedicine del Lancet, ha messo in luce una scoperta importante: non solo il long-Covid rappresenta una sfida per la salute a lungo termine, ma anche altre infezioni respiratorie acute possono portare a sintomi a lungo termine, come ad esempio il “long-cold”, ovvero un raffreddore di lunga durata.
Sono pochi gli studi che, infatti, hanno confrontato gli effetti nel tempo causati dalla Sars-Cov-2 rispetto ad altre infezioni respiratorie acute (IRA).

Sintomi Prolungati Oltre 4 Settimane

I sintomi che caratterizzano il long-cold possono persistere per più di quattro settimane dopo l’infezione iniziale. Tra i sintomi comuni che possono durare per più tempo rientrano tosse, mal di stomaco e diarrea. Questi risultati suggeriscono che le infezioni respiratorie acute non associate al Covid, quali raffreddori, influenza o polmonite, potrebbero avere impatti duraturi sulla salute attualmente non riconosciuti.

Giulia Vivaldi, ricercatrice a capo dello studio, spiega che “Queste infezioni ‘lunghe’ sono così difficili da diagnosticare e trattare principalmente a causa della mancanza di test diagnostici; inoltre, ci sono così tanti sintomi possibili. Di contro, solo per il long Covid, ci sono stati più di 200 studi”.

Risultati dello Studio e Prospettive

Lo studio ha esaminato i dati di oltre 10.000 partecipanti, rivelando che il 22% delle persone con Covid-19 e il 22% di coloro che avevano sperimentato infezioni respiratorie acute diverse dal Covid riportavano entrambi sintomi prolungati dopo l’infezione. Il rischio di sintomi prolungati è risultato dunque simile, indipendentemente dagli agenti patogeni. Sebbene la gravità dell’infezione sembri essere un fattore determinante per il rischio di sintomi a lungo termine, sono in corso ulteriori ricerche per comprendere perché alcune persone soffrano di sintomi prolungati mentre altre no.
Lo studio della Queen Mary University dunque sottolinea l’importanza di una ricerca continua per comprendere meglio questa condizione e definire trattamenti mirati.